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Timofej Andrijashenko, alla Teatro alla Scala. Milano

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Timofej Andrijashenko

Abbiamo conosciuto Timofej Andrijashenko dopo un lunga attesa. Eravamo fermamente convinti che si trattasse di  un talento particolare. In questo abbiamo avuto sempre un po’ di fiuto. Lo avevamo notato in un servizio  fotografico realizzato da Federica Boncompagni. Le avevamo chiesto informazioni su di lui, sia per rispetto alla stessa, sia perché ci fosse chiarezza e determinazione nell’ottenere ciò che ci eravamo prefigurati. In realtà per sapere chi fosse sarebbe bastato qualche click. Dopo diversi scambi di email poco incoraggianti, fummo indirizzati presso il suo manager, Il Signor Paolo Boncompagni, organizzatore del Concorso Internazionale di Danza Città di Spoleto. Un altro “non a caso”. Decidemmo con rapidità, di concordare e realizzare un servizio fotografico per nostri scopi personali e dedicato alla lavorazione del marmo. La classicità, per quella sua innata e trasversale capacità di attingere e rigenerare stereotipi di bellezza, ancora oggi,  ancora oggi, di soddisfare gli obiettivi di chi la invoca. Per fortuna. Fin da subito, avevamo capito che Tima, sarebbe stato in grado di fare grandi cose. Preparato e programmato dalla sua insegnante,  Irina Kashkova , per una carriera di danzatore che sicuramente lo porterà lontano, Tima, nato a Riga in Lettonia, è stato per noi, una rara occasione di professionalità, rispetto e disponibilità.  Doti comuni a molti ballerini professionisti che provengono dai paesi dell’est, dove la danza è tuttora  uno stile di vita, ed un esempio da seguire.

Timofej Andrijashenko

 

Vittoria Ottolenghi, in una nota intervista, parlava “del disprezzo e dell’ indifferenza per la danza da parte della cultura italiana, perché è effimera”, diceva, “e quando è finita , è finita per sempre e non si ripone in uno scaffale come un libro”. Per questo, noi abbiamo scelto di lavorare il meno possibile nei teatri. Per noi un danzatore è qualcosa di speciale ed unico. Riprenderlo in luoghi insoliti,  addirittura antitetici, come negli scatti che abbiamo avuto il piacere di fare insieme di recente con Timofej e con altri, vuol dire, esaltarne al massimo le sue potenzialità, per legare la sua immagine in maniera indelebile, al nostro immaginario. Evocare la sua presenza in ogni luogo dove lo abbiamo ritratto, ci aiuta in qualche modo, ad onorare il mondo da cui proviene, cogliendone sfumature ed interpretazioni che in un teatro è difficile, se non impossibile valorizzare.  A Timofej abbiamo voluto dedicare una intera pagina del nostro sito, in occasione della  sua partecipazione, dopo appena cinque mesi alla Scala di Milano, nel ruolo di Albrecht, nel balletto Giselle, integrando la pagina con nuovi scatti.

Di lui dicono :

Timofej Andrijashenko, un danzatore molto giovane con potenzialità altissime – Francesca Pedroni

Timofej Andrijashenko, tall and blonde, stands out against the Italian look of most of the company, and is a handsome presence @gramilano

A Tima i nostri complimenti per la sua recente performance  al Teatro della Scala, e l’augurio di rivederci presto. 

 La Recherche Studio 2015

Alì Baba – Compagnia Carlo Colla e figli

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Ho varcato la soglia del palcoscenico del teatro, con qualche ora di ritardo e per colpa di un brutto risveglio. La compagnia aveva cominciato ad allestire lo spettacolo da un pezzo. Chi montava gli scenari, chi mi chiedeva cortesemente di non stare nel mezzo. Qualche saluto indifferente. Burattinai seri. In scena Alì Baba. Compagnia Carlo Colla.6
Nel cartellone della Compagnia di Carlo Colla e figli, solo per citare qualche titolo, Trovatore, Aida, Shéhérazade e Pétrushka. Da un lato del palcoscenico gli uomini intenti a montare gli scenari e in disparte dal gruppo, due donne che tirano fuori i burattini sdraiati dentro i bauli. Li “svegliano” con infinita pazienza, sbrogliandoli gli uni dagli altri. Li ricompongono come fanno le madri, con i figli al mattino.34
Sguardi che si incontrano compiaciuti. Le smorfie delle bocche, ed occhiate moleste sotto il profilo degli occhiali. Nell’aria un odore dolce di stoffa, di juta, di un qualcosa che è rimasto lontano. E quella straniata dolcezza che ispira un burattino a cui manca la parola e a cui verrebbe da dire, perché non ci parli ?27
Una terza donna un po’ defilata, porge il capo della stecca ad Eugenio, il patron, che seduto e infortunato ad una caviglia, cita, controlla e riprende paterno tirando le fila. Pian piano dalle numerose scatole escono fuori 120 raffinati personaggi.61
Alì, Morgana, Kassim, tre pecore e tanti asini. 40 ladri e un dromedario, dei canarini ed una voce narrante. E’ il burattino che riassume la storia. Quando son spente tutte le luci, entra in scena con un piccolo teatrino illuminato attaccato al collo. Evoca il teatro che lo sovrasta, e quello che in platea silenzioso l’ascolta.42
Racchiude i piani di un unico parterre. L’attore, la scena, il sogno. I burattini hanno barbe vere, capelli veri, età da briganti, occhi taglienti. Figuranti di strada e teste intagliate nel legno di tiglio. Un lavoro ossessivo e magnetico. Una volta sbrogliati li tengono appesi e fasciati dalle lenzuola, per tenerli buoni e perché non si perdano e non vadano in giro a combinare disastri.
Chiedo alle madri, se mai qualcuna di loro, si sia affezionata ad un personaggio in particolare . Io ne adocchio almeno un paio, che complice il buio, porterei via volentieri. Una pronta risponde, anticipando un pò troppo decisa le altre … no no sono tutti eguali per noi.54 copia
Era una domanda delicata, ma in famiglia accade spesso di sentirla. La terza da lontano sembra invece di parere diverso ma non riesco ad afferrare in tempo. Le solite preferenze. Gli uomini più in là, hanno quasi finito di sistemare gli scenari.
Un silenzioso glissare in su e in giù di scene rurali. Di chiostre e di notti stellate. La grotta dei ladri, i gioielli, e dietro in fondo per ultima, una macchina infernale che provoca il galoppo lontano, laggiù per fare terrore ai bambini. “Arrivano i banditi”.43
Non so bene cosa mi abbia spinto a venire fin qui. Io non ho ricordi di questo tipo, e non è di sicuro uno spettacolo per bambini. E’ uno spettacolo dedicato al candore di chi non rinuncia a sognare. Avrei solo una richiesta…nel blu del cielo notturno, per favore ci vorrebbero più stelle. Il resto è perfetto. Una delle tre donne, lamenta con piglio quasi sindacale, di non essere riuscita a vedere uno spettacolo dal lontano 1987. Perché come tutti i presenti, durante lo spettacolo muove i burattini. Decido di vedere solo il primo tempo dalla platea e senza fare foto, ed il resto dietro le quinte anche io insieme a loro. Solidarietà. Mentre lo spettacolo si avvia alla fine, e Margana fa la danza del ventre, in due in silenzio incominciano ad arrotolare i fili e riporre le marionette nel buio dentro le casse.
Gli va reso qualcosa credo, e questo è ciò che ho fatto per loro.PAO_8494
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White fish

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DSC_8816.NEF

La barca scivolava via goffa e senza remi. Lui non poteva dirigerla, e sperava che si arenasse sulla spiaggia che si parava di fronte ai suoi occhi. Era prossimo ad un isola.

Una piccola insenatura apparecchiata davanti a lui, preludeva ad un crocchio di case sulla sinistra. Sulla destra un piccolo cimitero, con dei maestosi cipressi. Qualche palazzetto con un unico balcone al centro. Da uno di essi gli parve di vedere una donna intenta a guardare altrove, e nella quale notò una indifferente somiglianza con sua madre. All’interno alcune tende sventolavano grasse. L’acqua immobile, era verde smeraldo. Per raggiungere la riva ci mise ancora del tempo. Appena sentì toccare sotto la chiglia, saltò in acqua come se camminasse su degli spilli. Si era rimboccato i pantaloni per non bagnarli. Altri non ne aveva.

Proprio di fronte al cimitero, dove la barca aveva puntato da sola, c’era una doppia scala che affogava nell’acqua da un tempo inalterato. Una da destra e una da sinistra. Affioravano dal peso dell’acqua entrambe intrise di melma e di alghe. La percorse a mani alzate per centrare l’equilibrio e quasi in segno di resa. Si volse poi scalzo, verso il piccolo cancello di entrata, da sempre spalancato sui vivi.

Nessun fiore fresco, nessuna presenza. Fu subito attratto da una tomba con una lapide a rilievo in fondo al viale alberato. Una enorme piovra scolpita nel marmo, stava stringendo con dei potenti tentacoli una barca avvolgendone il fasciame, blu e corrotto. Dalla barca fuoriuscivano dei piccoli pescatori terrorizzati, che erano nell’atto di saltare in mare per salvarsi. Erano vestiti tutti in maniera eguale.

Alcuni di loro, vedendolo sostare di fronte alla lapide, erano riusciti a saltare giù dalla barca. Gli corsero incontro, ma erano talmente piccoli, che non era in grado di capire cosa dicessero. Gesticolavano indicando la scena, e supplicandolo di dare loro una mano. L’enorme polpo, lo fissava torvo con un unico occhio posto frontalmente, mentre i tentacoli stringevano la barca, oramai completamente in suo possesso. Gli bastò fare un passo, che l’animale cominciò a ritrarsi, e una dopo l’altra, le lunghe braccia coperte di ventose, svanirono ipnoticamente nell’algida lastra.

Per ultima, la testa e poi l’occhio furioso.

I sopravvissuti, giacevano esausti. Alcuni erano seduti sulla lapide con le braccia diritte e i palmi aperti, e si godevano il tepore del marmo , e quello di una ritrovata vita. Toccata dal sole, l’acqua salmastra di cui erano zuppi, lentamente si asciugava sulla superficie biancastra, evaporando a vista d’ occhio. Due di loro gli corsero incontro. Uno dei due, si arrampicò rapidamente attaccandosi ai pantaloni, e rimase affacciato con il corpo al caldo, dentro la sua tasca destra. L’altro più giovane, salì fino al collo e allargando le braccia riuscì solo a pizzicare la pelle, lasciandoci un bacio.

Rivolse lo sguardo verso il piccolo villaggio, dal quale ancora non vedeva arrivare alcun segno di vita. Camminava lentamente, appoggiando i suoi timori alle cantonate. Imboccò l’unica via di entrata e si fermò di fronte alla prima casa che trovò alla sua destra. L’uscio era aperto, un odore caldo ne usciva deciso. Varcò la soglia. Era la casa che aveva sempre desiderato. Calpestando l’impiantito, composto da grandi pietre levigate, entrò in una vasta cucina. Un pavimento lucido e diseguale. Un soffitto basso, pareti dimenticate, mobili vecchi e sfiniti.

Nessuna suppellettile, e un grande lavandino in pietra di fronte al quale una anziana donna, silenziosa e di spalle, era intenta a preparare un pranzo. Un flebile scroscio di acqua, interrotto dalle mani, puliva il cibo che lei non aveva mai amato preparare.

Indossava una vestaglia blu che lui, conosceva assai bene. Pensò, si disse, che quella potesse essere sua madre mentre era intenta a preparare il suo pranzo. Lei annuì nello stesso momento in cui quel pensiero si affacciava nella sua testa. Senza voltarsi e senza parlare, e con un gesto di cui a lui parve di capire completamente il senso. Si sedette a capotavola, di fronte al silenzio dell’unica porta finestra, dalla quale si vedeva il mare. La barca svogliatamente custode della sua speranza, non si era ancora arenata. Ad ogni onda che si scaricava sulla riva, corrispondeva il suo ciondolare scomposto. I pescatori a capo chino, con un timore quasi reverenziale, lo avevano seguito fin dentro la casa in silenzio. Si erano stesi in cerchio di fronte a lui sul tavolo. Il più sfrontato si fece avanti e gli chiese di raccontare loro una storia. Guardandoli con attenzione, uno dopo l’altro, si schiarì la voce e gli raccontò la storia del pesce bianco.

Si trattava di un pesce realmente vissuto. Era di un colore bianco candido, ed era l’unico ad essere cosi. Era molto grande ed elegante. Un giorno fu tratto in una rete di pescatori, in un isola lontana, simile a quella in cui si trovavano in quel momento. Quando fu sbrogliato dalla rete, si rivolse gentilmente ai pescatori parlando la loro lingua. Chiese loro perché lo avessero pescato, e soprattutto, che diritto avessero di ucciderlo, e se questo fosse unicamente per soddisfare il loro palato.

Loro rimasero terrorizzati dall’idea che un pesce parlasse, ed interpretarono questo, come un ammonimento fatale.

Guardando i pescatori che erano sul tavolo, e che lo ascoltavano attentamente, disse loro che la piovra era stata la loro punizione. Anche se sapeva benissimo, che avrebbero continuato a pescare. Interpretò il silenzio della donna, sempre voltata di spalle, come una approvazione. Lei senza voltarsi, fece per uscire dalla porta, lasciando sul piano di marmo, i piatti con il cibo lavato, e in altri quello già pronto da mangiare. Aveva finito. Lui sentì il desiderio di parlarle e di essere corrisposto. Inutilmente. Con una mano appoggiata allo stipite sinistro dell’uscio, mentre con l’altra cercava nel vuoto l’equilibrio, la donna si diresse verso la spiaggia con una flemma claudicante, e senza mai voltarsi, scomparve dalla prospettiva. Svanì.

I pescatori le corsero dietro, convinti che fosse nella barca, che staccatasi dalla riva era quasi in mare aperto, trascinata via dalla corrente e dal mare che incominciava ad incresparsi. Gettarono inutilmente la rete per riprenderla.

Quando sentì alle sue spalle un brusio. Un coro muto gli parve provenire dalla stanza accanto.Ne aprì l uscio, e vide sua madre che lo guardava e gli sorrideva, felice di avergli fatto uno scherzo, di cui non riusciva a capire il senso. Era in piedi, in mezzo ad un semicerchio di donne sedute tutte nella stessa posizione, e a cui stava dicendo qualcosa. Avevano le bocche cucite da uno spago morbido e sottile. Lei serena in piedi tra loro, guardandole in alternanza, spiegava che la colpa era di tutti. Erano le mogli dei pescatori. Quelle che avevano cucinato il pesce bianco

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07Feb.2015

Zastava Orkestar

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Imagine a band of twenty wild musicians in a procession. Imagine them coming down a dark alley on a summers night.
With lots of people on balconies and against the walls to let them by.
To noisily enter a square, nearly marching, one of those squares with the walls drenched in the moonlight of a Julys full moon.

Imagine the furtive looks between them as, holding hands they form a circle to keep the greedy and hungry crowd at bay.
And they haven’t even began.

Imagine a sudden silence and the trumpets blowing, while a girl holding batons with flaming ends, spreads the smell of kerosene and flames to keep the onlookers away as if they were hungry wolves.
In the center sits Bubo, the oldest, keeping time he taps his foot patiently, gently, and watches the crowd knowingly. He is already sweaty and tired, in a short while the square will no longer be the same.One square, one uproar.
All of a sudden a trumpet solo, and then all together searching for a riot of notes.
And the crowd hit with a shiver, relax and enjoy.
Shouts with a touch of drunkenness, people pushing, unleash and wish to make love to the sax and burn in the fire.The sax turns and sends them away scolding them with notes.Low and sensual, curvy like the flesh of a bed.
A man with a red rimmed black hat stands in the middle, giving orders and while spitting fire up to the sky, the music bursts out.

This is Zastava Orkestar

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Daria Bignardi vs Signorini

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Gentilissima Daria Bignardi,
Le scrivo a seguito della puntata televisiva da lei condotta questa settimana, e all’intervento del Sig. Signorini. Non guardo mai la televisione, e raramente mi capita di seguire qualche talk show. Letterman in assoluto è il mio preferito tra i possibili. E lei. Ricordo in passato di aver vista qualche sua puntata, e qualche memorabile intervista, degna di essere accostata al titolo e al film, per cui il rimando della sua trasmissione, si era dimostrato pertinente e inevitabile, sin dall’inizio della serie.
E’ veramente un caso che io prenda carta e penna per scrivere, ma la solitudine in cui vivo, mi rende indispensabile questo atto. Sono di carattere difficile, per la vita che ho condotto, e non certo per essermi meritato tale. Per essere chiari e sintetici, quanto possibile, ho trovato la sua intervista al Signorini veramente sgradevole. E vado ad elencare le mie motivazioni.
Tra tutte le cose che non mi sono piaciute, senza nulla togliere ovviamente al Signorini il diritto di esporle e di affrancarsi dal suo passato, ho trovato veramente obliqua tutta quella parte che ha riguardato le scelte sessuali del suo intervistato. Mi chiedo, senza retorica, cosa a noi possa interessare (spero ovviamente senza la presunzione di essere stato il solo, ad aver quanto meno avvisato disagio ) circa le prime esperienze pratiche del Signorini, e sono rimasto infastidito dalla insistenza, ma soprattutto da quell’ostentazione che voleva parafrasare la sua presunta libertà di espressione, circa le sue prestazioni, e che si evince dalla quantità di dettagli, che lo stesso ci ha fornito. Non riesco a capire infine come una persona, oggi possa definirsi sulla base delle sue scelte sessuali. Questo può rappresentare un valore sul quale postare il proprio posto al sole?
Perché mi chiedo, quanto sarebbe stato interessante se il successivo ospite Dario Argento, ci avesse spiegato le sue iniziazioni al sesso ( come etero convinto e con la stessa dovizia di particolari ), se sarebbero state accolte con lo stesso interesse. E se lo avesse fatto, questo veramente avrebbe potuto avere una valenza di interessi da parte di chi ascolta ? NO.
E ci sarebbe sembrato fortemente inopportuno. Qui ovviamente non stiamo parlando delle tette della Gradisca, ma delle pugnette del Signorini, quanto a suo stesso dire, e delle sue tecniche solitarie.

L’errore palese sempre a mio giudizio, di molti omosessuali è proprio il bisogno di ostentare e di dichiarare la propria appartenenza, come un elemento indispensabile da propinare al prossimo, e sul quale far leva per…
So perfettamente di andare in controtendenza. E non me ne preoccupo, sebbene il mio curriculum sia sicuramente più variegato, ma ahimè, meno blasonato di quello di Alfonso.
Ma stento a credere che si possa accettare una persona, in quanto omosessuale, semplicemente perché per affermare questo suo sacrosanto diritto, abbia patito delle sofferenze, delle umiliazioni da parte della così detta, società civile. Tanto varrebbe essere celiaci, ipocondriaci, morti di fame o vivere in un seminterrato per definirsi a questo punto. Ma sicuramente con minori possibilità di ascolto e di pubblico.

Se la sceneggiata fosse stata imbastita da Busi per esempio, l’avrei accolta tout court.
Perché Busi è in primis una persona che esprime se stesso attraverso una complessità e una verve che Alfonso non sa cosa sia. Ma soprattutto perché Busi è contenuto e contenitore. E’ cosa facciamo di noi stessi per gli altri, ( e non a letto ) che fa la differenza per essere apprezzati o rifiutati nella vita, o come me ignorati. E’ dal nostro livello di capacità di tradurre il nostro percorso, dal nostro cercare di strapparlo alle nostre manchevolezze e inadeguatezze, e dalla capacità che abbiamo nel farlo che si vede chi siamo, la nostra preparazione, il nostro desiderio di esprimerci, e dalla profondità dello stesso che nasce la nostra differenza e bene augurabile diversità.
E veniamo in questo modo al punto anche più dolente. Il Signorini, ci dice che, e lo sappiamo bene , è direttore di una testata di gossip.
Una volta erano giornali che si trovavano in portineria o dal barbiere senza offesa verso quelle categorie. Ma è solo per sottolineare che stiamo parlando di riviste dedicate ad un pubblico che della curiosità ha sempre fatto una virtù, e che una volta letti venivano usati per ammazzare le mosche o riempire le scarpe quando si bagnavano.
Il Signorini oggi ce le ri-propina intrise di quel pettegolezzo tipico dell’ Italietta Badogliana e pressapochista che ci ha ridotto al punto in cui siamo, e su qualsiasi fronte abbia combattuto a quanto pare. Infiniti pruriti, e mentori di grandi bellezze hollywoodiane, ci suggeriscono che potremmo chiudere un occhio, ma io sinceramente li chiudo entrambi e non vedo neanche perché io debba prendere in considerazione l’attività del suo intervistato che una volta dismessa, pare tra 5 anni, al contrario di Busi, non lascerà traccia alcuna.
Ci dice, sempre lui, di aspirare al silenzio una volta finita la sua saga dei suoi inutili mastruzzi editoriali. Questo mi pare sia stato l’unico momento di gloria di Alfonso, che è sembrato, finalmente percorso dal fremito di una fragilità umanamente impeccabile e toccante.
L’intera operazione è parsa alla fine, imposta e suggerita come a far passare un personaggio colorito, mostrandoci semplicemente il suo scialbore e la mediocrità delle sue prestazioni. Anche quelle onanistiche, di cui il nostro già stressato inconscio avrebbe fatto volentieri a meno, a scanso di visualizzazioni veramente poco stimolanti da un punto di vista erotico, stimolandoci a trascorre “quella ventina de minuti de trasgressione”, che tutto è stato men che una boccata d’aria.
Sapere se Dudù è gay non ci ha rallegrati in nessun modo, e tantomeno sapere delle bisbocce con la di lui padrona, a suon di bottiglie di amaro. Tutto questo veramente deprimerebbe, anche senza condizionale, l’esistenza di qualsiasi ascoltatore che avesse a cuore la sua salute mentale e il suo credo personale, sempre che ne abbia uno, e sappia dove alloggi.
Il massimo è stato toccato, quando lei, finalmente, le ha fatto notare al Signorini come non potesse lamentarsi,mi pare, delle “invasioni” nella sua privacy e del suo compagno noto senatore Pdl , dopo aver passato una vita a ficcanasare nelle vite altrui. Alfonso, visibilmente in difficoltà è parso essersi reso conto di quanto ci sia superfluo in veste di direttore. In questo, lei è stata infinitamente Daria, e la ringrazio, ma è stato solo il passaggio di una cometa.
La recherche Studio © 2015

Lo sciamano

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Quando, sul finire dell’anno, mi fu proposto di andare in montagna, sulle prime ero veramente indeciso. Poi ad un tratto, mi era balenata in testa la parola Ent.
Pur sapendo che non si trattasse di veri Ent, l’associazione successiva fu quella degli uomini vestiti di erba, della comunità Ladina. Il terzo e finale step, fu collegare tra loro quelle chiamate, e unendole scoprii il carnevale Ladino. Si celebra proprio in Trentino dove mi dovevo recare, e si nutre di questi personaggi. Uomini alti vestiti di muschio, si erano improvvisamente affacciati nella mia testa, misti a ricordi e sensazioni di magie malvagie, benevole e silvestri, di un racconto di Buzzati. Ma sono sicuro che ci fosse anche dell’altro. La chiamata era fin troppo evidente perché io vi rinunciassi.
Decido di unirmi al gruppo e di partire. E di non raccogliere altre informazioni, lasciando al caso il resto. Questo è il resoconto.

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Un viaggio riposante e un arrivo al mattino, senza particolari eccitazioni.
Mentre il gruppo che accompagnavo si precipita sui campi da sci, scelgo di andare in alto fin dove la luce del giorno mi potesse consentire di fotografare e ritornare in tempo per la cena.

Scorgo sulla sinistra della strada che mi porta al passo, un fiume adagiato in una forra scura e gelida. Un imperativo fermarsi. Accostata la macchina con due ruote nella neve e due sull’asfalto, scendo a fotografare il ghiaccio con la parola ENT in testa.
Poi al Lago di Carezza coperto di ghiaccio anch’esso. Decido che quello potrebbe essere il posto dove fare le foto notturne, luna piena volendo. Torno a valle che ormai è buio con la sensazione di aver afferrato poco.
Ci dormo su, e la mattina dopo, mentre il gruppo va a sciare, zaino in spalla chiedo al tipo della reception dell’ Hotel, se sa indicarmi qualcuno che produce maschere di legno.
Mi dice che devo andare al museo delle tradizioni Ladine. Lassù, in alto al paese, spiegandomi la strada su una cartina. Camminata di 2 km.

Il museo è recente. Molto bello. Cerco di attaccare discorso con il bigliettaio che non mi considera. Tutti i reperti esposti, i vestiti, le maschere, gli attrezzi, i mobili, emanano una magia particolare almeno per me che cerco i miei link interiori.
All’ultimo piano nascosto dietro una parete di cartongesso, trovo a sorpresa il Salvan … l’ Ent.
Interamente ricoperto di muschio secco, naso e viso pronunciati, che nel ricordo somiglia ad una composizione dell’ Arcimboldo, mi pare, mi fa capire, che non sono arrivato fin li per caso.

Il salvan

L’ostacolo evidente a quel punto, diviene trovare qualcuno che produce le maschere. Scendo di nuovo all’ingresso per uscire, e i bigliettai sono diventati due. Uno giovane, l’altro più vecchio con faccia da sindacalista.
Mi complimento per il museo. Ma, non è loro e quindi, non gliene importa nulla.
Alla mia domanda su chi produce le maschere, mi dicono di andare giù in paese dove ci sono i negozi di souvenir.
Mi sto per arrabbiare, e dico al giovane, che se prova ad ascoltarmi forse comprende la mia richiesta. Stizzito, mi risponde che le maschere le fanno a Penia, pochi km lontano. Corro in albergo prendo la macchina e vado a Penia. Entro nel bar che mi è stato indicato.
Penso, se prendo qualcosa, magari, saranno contenti di darmi qualche informazione.
Mentre sto per chiedere alla signora di farmi un caffè, noto su un lato un tavolo con tanta insalata, un vecchio e i due nipoti che si sono messi a tavola per il pranzo. Mi coglie una nostalgia infinita, per ciò che di più caro esiste. Chiedo alla signora se posso mangiare anche io e che non voglio più il caffe. Rimango in disparte per poterli guardare, e a distanza mangiare con loro.
Sono seccato di apparire come un turista per l’ennesima volta. La sala è vuota, tranne una donna sulla quarantina, che sola come me, ascolta la musica in cuffia.
Pochi km più in là, la gente si massacra per prendere lo skilift. Mentre mangio, cerco con gli occhi tracce di maschere, ma non ne vedo. Forse ho sbagliato posto. Alla fine deciso mi avvicino al bancone e chiedo informazioni. La signora mi dice che quelli che fanno le maschere lavorano tutti negli impianti di risalita, e che non troverò nessuno a casa, fino a sera… Buco nell’acqua.
Esco per fare due passi, e divento all’improvviso, quello che era entrato poco fa, nel bar alle mie spalle.
La signora che stava al tavolo di fronte, uscita anche lei, mi indica la casa di uno che fa le maschere.. Andrea il più bravo. Abita nella casa celeste alla fine del paese. Arrivo fin lì dopo aver attraversato l’antico borgo, e non trovo nessuno. Vedo una cantina aperta, dalla quale esce il fumo dello stallatico. Qualcuno spala dentro. Busso e propongo la stessa domanda.
Mi dice di andare a trovare Enzo che sta in quella casa laggiù, vicino al ponte di legno sul canale, oppure da Andrea in piazza a Canazei, di fronte a San Floriano.

d

Vado da Enzo, suono al portone, risponde al citofono e mi butta giù senza attendere che io riesca a dire qualcosa di convincente.
Non so cosa fare, se suonare di nuovo, o attendere o andare via. All’improvviso si apre il portone dello stabile, e si affaccia un uomo minuto e appuntito come una matita. Si appoggia allo stipite della porta a braccia conserte, con il fare di uno che vuole provocare. Solo allora capisco di essere su una strada complicata e piena di prove da superare e mi chiedo, perché dovrebbe essere diversamente.
Gli dico che sono un fotografo, e lui mi dice, ah…lo so bene! Senza accennare un sorriso. Venite tutti da me, prosegue, che sono il presidente dell’ associazione delle maschere, ci chiedete di fare le foto e poi scomparite. Uno, lo scorso anno, aggiunge strafottente, è venuto, ci ha fatto le foto e poi ha mandato qualche scatto, e ci ha detto che se volevamo il resto, le dovevamo pagare. Questa l’ho già sentita….
Poi mi dice, che ora le maschere non si possono vedere, perché sono tutti al lavoro, e che se voglio, torno nel periodo di carnevale. E due.

Gli spiego, quasi con reverenza, che sono venuto lì per via della luna piena di domani e che a carnevale non so se potrò tornare..
Ci scambiamo i numeri, abbozzo delle scuse a nome della categoria. Me ne vado da Andrea.
Fatto qualche chilometro, mentre cercavo di ricordare una casa che avevo visto all’andata tutta circondata da tronchi di legno, suona il telefono. Il presidente dell’associazione delle maschere di Penia, si era reso conto di avermi trattato male e mi vuole regalare un bel libro. Torno indietro, perdo la casa che volevo fotografare, e una volta ritirato il bel volume, ringrazio e vado da Andrea.

Ricordo solo il nome della chiesa. Parcheggio lontano e vado a piedi.
E’ già pomeriggio inoltrato. Lungo il cammino, una famiglia di napoletani mi ferma nei pressi di un giardino, in cui sono esposte delle opere artigianali in rame battuto e rivettato.
Si tratta per lo più di “tabernacoli” pagani, in cui sono raffigurati in maniera ossessiva animali in prevalenza galli e uccelli. Nella parte bassa ci sono delle macabre teste di bambola inserite sul corpo anch’esso fatto di rame. Appaiono essere dei pupazzi, simili a delle macumbe, più che a dei figuranti, o Lari. Credono i napoletani, che io sia l’autore di quella roba, e mi chiedono i prezzi. Mi hanno già seccato.

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Rispondo in inglese che non parlo italiano. Arrivo alla chiesa e il negozio che cercavo, è chiuso.
Scorgo sul lato opposto un ragazzo sulla trentina. E’ molto alto. Indossa dei pantaloni di fustagno nero, di almeno due misure più grandi, e con una banda laterale ancor più nera.
Gli occhi cerchiati da un incarnato più chiaro. Come di chi sia solito proteggersi gli occhi, dal sole montano. Mani affusolate lunghissime. Un corpo e una ossatura esile e ciondolante, dentro vestiti grandi il doppio. Leggermente incurvato sulla schiena, tale da farlo sembrare quasi figlio di vecchi.
Lo apostrofo da lontano, mentre deciso sta per entrare nella porta di un albergo.
Mi guarda mentre seguita a salire quei pochi gradini che parano all’albergo, di cui ho capito, è il portiere. Mi fa cenno di avvicinarmi e di entrare e di seguirlo. Gli spiego cosa sto cercando. Mi dice senza parafrasare, di non andare da Andrea perché fa roba dozzinale, ma da Claus Soraperra.
Il nome mi piace, anche se so che non lo ricorderò con facilità. Mi spiega pazientemente, dove trovarlo e me lo scrive su una cartina, e mi da anche il suo numero nel caso io abbia problemi a trovarlo. Attraverso tutto il paese indeciso, se seguitare a dare retta a quella catena di
Sant’ Antonio, o riconoscere che sto perdendo il mio tempo sapendo per giunta, di potermelo permettere. Gli unici 4 giorni di vacanza, in un anno intero.

Aiutato dalla cartina arrivo a casa di Claus. La casa è tutta affrescata esternamente. Sono affreschi recenti che mostrano il papà di Claus, raffigurato insieme ad un noto fotografo delle Alpi, tale Dantone.
Il primo che immortalò queste montagne, su lastre fotografiche di vetro.
Dopo un periplo di scale, una ragazza mi apre la porta affacciata su odori di porri a bollore, e mi riporta di sotto, dove si trova la cantina di Claus. Questi è il figlio di un padre, famoso scultore locale, il quale mi dice che lo stesso, si è gravemente ammalato.
E’ tornato dall’ospedale il giorno prima, e non vuole vedere nessuno.
Gli spiego che non voglio disturbare, e il motivo della mia richiesta. Faccio uno sforzo ancora, cercando di aprire uno spiraglio circa le mie intenzioni, e gli spiego che fotografo nelle notti di luna piena, e che avrei bisogno di una bella maschera da utilizzare stanotte.

Come folgorato, zittisce e quasi toccandomi con la mano, e tenendo il braccio teso, sospendendo per qualche secondo il dialogo. Puntandomi l’indice, come mi conoscesse da una vita, mi dice, che la persona giusta è Fulvio. Abita nel paese dove sono alloggiato. O almeno molto vicino. Mi dice che Fulvio, è uno sciamano. Un personaggio del posto, e di chiedere all’albergo dove sono ospite affinché qualcuno, mi possa indicare dove vive, perché lui non lo sa.

Incomincio a nutrire qualche speranza, e al tempo stesso mi sento carico di quella stanchezza che partoriscono, a volte, i dubbi. Come se stessi forzando la mano. Decido che dopo il prossimo passo, mi fermerò qualsiasi esito negativo, mi avesse dato la ricerca. E’ ormai notte. Fila lunghissima di macchine per ritornare in albergo.
Arrivo che gli sciatori sono rientrati. Prima di salire in camera vado dal direttore dell’albergo, ringraziandolo per avermi indicato il museo quella mattina, e che quel primo passo mi aveva infine condotto a casa di Claus, ed è sottointeso che, ora stava a lui girare l’ultima carta.
Dal mio sguardo capisce che deve farlo subito e non domani mattina. Mi conferma che Fulvio lavora alle funivie, ma a quest’ora sicuramente lo trovo a casa. Ci vada direttamente, mi suggerisce. Preferirei chiamare, gli rispondo, visto che mi ero imposto di non proseguire di fronte a qualsiasi esito negativo. La telefonata avrebbe potuto lasciare aperto qualche varco.
Cerca il numero. Mentre parla, non posso fare a meno di pensare, che sta li in quell’ufficio dal mattino alla sera, e che è pieno di tic. Mi fa venire voglia di imitarlo, o almeno di provarci una volta in macchina o in camera. Per capire cosa si prova.

Mi scrive il numero, ma è mancino. Alcuni numeri sono scritti male e una volta provato a chiamare mi dice che il numero è inesistente.
Sono sul letto scoraggiato. Ormai sono le 18. Chiedo ad uno del gruppo, se mi accompagna a casa del tipo.
Se qualcuno, lungo la strada, mi desse delle indicazioni a voce, sicuramente non capirei.
Ho problemi di memoria, e la mia breve, è anche più corta. Poi non ho più gli occhiali e non ci vedo di notte. Uno di loro decide di accompagnarmi e di guidare. Accende il navigatore, ma non trova la strada. Penso tra me, che di sicuro ci sarà qualcuno che a quest’ora, porta a fare la pipì al cane. Appare a pochi metri una donna con un lupo al guinzaglio. Accostiamo e le chiedo se cortesemente, mi sa indicare la casa di Fulvio. Quello che fa le maschere. Mi indica quella finestra li… quella accesa. Non ci vedo, ma la vedo appannata, a poche decine di metri. Suggerisco a chi mi accompagna di accostare e di aspettarmi in macchina, e che poi lo avrei fatto entrare ad un mio segnale.

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Penso che non ci si presenta sul far della notte, in due, a casa di sconosciuti. Suono.

Mi viene detto al citofono, stravolto da sinistri sfrigolii elettrici, di entrare e accomodarmi. Varco in un ingresso angusto, dai soffiti bassi e le cui pareti sono avvolte da decine e decine di pietre e di minerali. Un grosso baule di legno, chiuso con un lucchetto sulla destra, e dei gradini sulla sinistra, costruiti con sassi di fiume.
Dall’ alito caldo della scala, proviene un ciabattare in discesa, anticipato da un urlo..Arrivo !
Compare davanti a me un omino basso con dei lunghi baffi e pizzetto che ricordano Asterix. Rosso in viso e la cima della testa bianca. Tipica colorazione di chi sta tanto al sole con un berretto. Dentro una voce mi dice … ci siamo.

Gli spiego il motivo della mia visita. I suoi occhi si illuminano, e mi apre un baule pieno di maschere. Mi scuso per l’orario e gli dico che fuori qualcuno mi aspetta in macchina e che non vorrei fargli perdere tanto tempo. Mi dice di chiamarlo e di farlo entrare.
Andiamo tutti nel suo laboratorio pieno di ciocchi di cirmolo. Sgorbie, scalpelli e trucioli. Qualche figura abbozzata. Vorrei fermarmi a lungo.
Poi via nella cantina, dove tiene i diavoli vicino alla caldaia.
Per ultimo in cima alla scala, appesa ad un chiodo, la maschera di uno sciamano con la testa piena di piume di fagiano.
E’ lui. Ma ancora, non oso chiedere. Ci porta di sopra, dove probabilmente vuole sentirci parlare e guardare negli occhi.
Si entra in una stanza tutta foderata di legno e di affreschi su legno. Dietro la porta una stufa di terracotta grossa quanto un armadio. Si scoppia di caldo.
Gli spiego che fotografo spesso nelle notti di luna, e che sono alla ricerca di qualche artigiano del luogo, che mi possa prestare una maschera per fare degli scatti. Lui stesso, per me sarebbe stato giusto per le mie foto, e gli chiedo di scusarmi per la stranezza delle mie richieste.
Mi risponde che in ciò che chiedo, non c’è nulla di strano. Anzi.
Dimostra di sapere perfettamente, cosa mi piace e cosa no, tra le maschere che avevo visto.
Si alza e prende lo sciamano.
Poi mi dice: il bastone intagliato che hai visto di sotto non lo vuoi vero ? Si.. non mi piace rispondo… è troppo elaborato tanto che mi pare finto. Hai ragione, mi dice, anche a me non convince. Sapeva già tutto. Prende uno scatolone, ci mette dentro lo sciamano e la faccia di radici con una pelle di volpe .
Riportamele domani sera a quest’ora.

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Ricordo che uscimmo da casa di Fulvio, per tornare in albergo, che era ora di cena. Sopra di noi, un cielo in transito e un infinito alternarsi, di nuvole e pallori. Dopo cena, andammo a fare le foto, all’inizio sotto la pioggia, e poi salendo fino a 1700 mt al Passo di Carezza, sotto folate di vento gelido misto a neve, e improvvise schiarite che facevano correre le nuvole stracciandole sulle creste.

La sera successiva, tornai alla stessa ora del giorno prima, a riconsegnare le maschere.
Gli feci vedere gli scatti della sera precedente, e ne rimase colpito. Mi disse di sentirsi poco bene, e mi chiese, se fossi in grado di camminare per un’ora nel bosco. Risposi, che se non si sentiva bene, avremmo potuto rimandare tutto, alla prossima volta.
Allora cominciò a raccontarmi di tutti i posti magici dei dintorni, dove saremmo potuti andare.
Presi nota.

Alla fine, prima di lasciarci, ricordo mi chiese cosa io avessi sognato la notte precedente. Nessuno di noi era stupito.
Gli dissi di aver sognato 10 navi che erano in fila, in attesa di attraccare al porto della mia isola.
Su di una, la prima, c’era mia figlia che non vedevo da tanto. Era dentro un sanatorio abbandonato, e la stavano per dimettere. Era guarita. Poi ci fu una seconda parte del sogno che non riuscii a raccontare.
Mi disse che le dieci navi, erano novità in arrivo e che non sapeva se fossero buone o cattive.
Ci lasciammo con la promessa di ritrovarci presto. Quando la betulla avrebbe cambiato la corteccia.

La prima volta che andai lassù, avevo 17 anni. Con il Club Alpino.
Avevamo le calze di lana lunghe fin sotto il ginocchio, sempre coperte di neve ghiacciata, che mettevamo ad asciugare sui caloriferi, insieme alle bucce di arancia.

E scarponi, pieni di grasso di foca.
Mia madre, si era fatta prestare per me, i calzoni da sci perché non potevamo comprarli.
Di quelli che avevano una fascia elastica che correva sotto la pianta del piede.
Una notte, per gioco, facemmo una seduta spiritica, e mi spaventai.
Ricordo che era una notte di luna come quella, e che ad un tratto scappai, e abbandonai il tavolo.
Avevo “chiamato” mio padre, e mi aveva parlato. Era morto da tre anni. Seduto in quel largo vano che, nelle case di malga separa le finestre di dentro da quelle di fuori, guardavo la valle sottostante sbandare, in qua e in là sotto la luce lunare.
Qualcuno mi teneva da dietro, stringendo il diaframma. Forse era mio fratello. Svenni.

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17Dic.2014

L’amore inutile

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Ore 13. Centro storico di Palermo. Consultavo il menù, e di fronte a me nel tavolo opposto, una donna faceva la stessa cosa.
Ogni tanto alzavamo gli occhi guardandoci, quasi nel tentativo di capire cosa l’altro avrebbe scelto, e alla fine ordinammo lo stesso piatto.
Incominciammo a parlare ad alta voce essendo distanti, e impossibilitati a stabilire qualsiasi tipo di intimità .
Sederci allo stesso tavolo,sarebbe stato un gesto provocatorio,che nessuno dei due si sentiva di voler percorrere. Ciò che dicevamo poteva essere ascoltato da tutti coloro che erano vicino. Contenuti vaghi all’inizio,e nessuno dei due sentiva il desiderio di parlare del meteo.
Anzi, sembrava che ci fosse il tacito intento di mostrare a chiunque, le nostre reciproche ed oceaniche solitudini.
Dissi  che il motivo della mia visita, era riprendere una processione al Capo di Palermo, e lei mi confermò che era lì, per la stessa cosa. Veniva da Torino. Il discorso scivolò a quel punto sulla Sicilia e i siciliani, e su quanto, a parer mio, avesse ragione chi sostiene che la Sicilia è una provincia del nord Africa. Un vicino di tavolo si sentì palesemente offeso da questo, ed entrò a gamba tesa nella discussione, chiedendomi esplicitamente cosa venissi a fare in Sicilia da 20 anni, e perché non rimanessi a casa mia. La donna, si girò verso di lui e apostrofandolo con altrettanta durezza, e spiegandogli, che l’appartenenza della Sicilia ad una altra cultura, era un valore enorme di cui tenere conto, e non qualcosa da cui doversi difendere.
Si inserirono nella discussione, un figlio ed una madre da un tavolo ancora più in là. L’uomo cominciò a discutere animatamente con il ragazzo che mi aveva aggredito, rimproverandolo di tanta maleducazione, ed esprimendo solidarietà verso il mio punto di vista, che di fatto, non aveva preso mai in considerazione, e della sua pertinenza.
I due tavoli siciliani cominciarono a litigare in Arabo tra di loro, e noi tornammo alla nostra discussione.

Durante il precedente dialogo con la donna, mi erano scappate due parole. L’amore inutile. Rivolto alla Sicilia. Così mentre gli altri litigavano, lei mi chiese cosa intendessi per amore inutile.
Le spiegai che secondo me, l’amore inutile è quella manifestazione dell’animo umano, che si riversa su qualcuno o qualcosa che si ritiene indispensabile per noi, e per il quale proviamo qualcosa che ci risulta inspiegabile, ma così potente da far leva sul nostro continuum mentale. Qualcosa che non viene accolto perché risulta essere incomprensibile al lessico di chi lo riceve, al punto da non essere corrisposto neanche in maniera informale o addirittura rifiutato ignorato, infine deriso.

Il mondo è pieno di questa forma di amore, e pochi ne riconoscono l’utilità, tantomeno la presenza.
Quei pochi però, sono in grado di usarlo, riversandolo su chi lo rifiuta, su chi lo ignora o peggio ancora su chi non ne conosce l’esistenza. Perché obbediscono ad una legge di cui  l’inconscio collettivo si nutre, per restituirlo in forme silenziose ed altrettanto inconsapevoli di convivenza e rispetto. Sono forme che lo rendono apparentemente inutile proprio perché non accolto. Inutile a chi non lo percepisce, ma così essenziale a chi inutilmente lo pratica. Anche se va disperso. Anche se viene deriso appunto.

Ci lasciammo al caffè, stupiti probabilmente della nostra appartenenza allo stesso progetto silenzioso. Senza alcun tipo di approccio, senza alcuna benedizione e senza scambiarci whatsapp, per fortuna.

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90 anni … e non sentirli

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Ho un vago ricordo del contorno di quel mattino di prima estate di 35 anni fa.
Avevo smontato dal servizio di guardia al ministero dell’ Aviazione, dove prestavo servizio mio malgrado. Allora, la leva militare, era obbligatoria. Avevo passato una notte insonne a sorvegliare la cassaforte dell’edificio, in un corridoio ipnotico ed estenuante, dove mi sembrava veramente poco probabile che fossero custoditi dei soldi.Ci alternavano alla custodia di un ufficio dalle grandi vetrate. Quattro ore di sonno e due di veglia.

Verso l’alba fui spostato al giardino adiacente l’edificio, e complice dell’auricolare che mi legava ad una minuscola radio a transistor, lo ammetto, caddi addormentato nel prato stringendo il fucile di ordinanza crogiolato dal primo pallido sole. Fui svegliato dai colpi di tosse sempre più insistenti, dal capofila del gruppo che veniva a controllare il mio operato verso le 7 del mattino. Lo sentii, con l’estremo angolo dell’occhio che avevo tenuto aperto. Dietro, in fila indiana, l’ufficiale di picchetto e altri due. Per un puro caso riuscii alzandomi, a dare l’impressione che stessi compiendo il mio dovere intimando l’altolà al gruppo, e con il cuore gonfio di paura per la punizione in cella di rigore che sembrava essere scontata. L’ufficiale di picchetto, l’unico al quale poteva interessare infliggerla, forse aveva più sonno di me e non si accorse o meglio ancora fece finta di…

Fu la mia ultima guardia. Decisi in quel risveglio, che avrei fatto di tutto per terminare il servizio militare prima della sua naturale fine.

E così fu, ad opera di un complicato intrallazzo, che posi in essere nelle settimane seguenti. Tornando a casa meditavo sulla fortuna che avevo avuto e su come organizzare la mia fuga nei dettagli. Aprendo il portone, mi ricordai di essere solo. In casa avvertii un odore prepotente di radici strappate e ancora avvolte di terra bagnata, che venivano dal terrazzo. Mia madre, aveva sradicato le ortiche dai vasi in fioritura, la sera prima. Le finestre erano aperte. L’unica ad essere socchiusa era quella della mia camera, che per mio espresso desiderio in quella stagione, doveva rimanere in quella posizione per lasciare la camera, nella penombra che preferiva.

Fuori sul muro, proprio accanto alla cornice di cemento che guarniva la finestra, salendo sulla grondaia del piano che abitavo, il quinto, avevo disegnato un grande asterisco bianco con una vernice bianca. Per trovarla da lontano con lo sguardo. E per ritrovarvi puntualmente affacciata, mia madre, quando al mattino andavo a piedi al ginnasio. Sapevo che era lì a guardarmi, neanche partissi in viaggio per Macao. Facevo quel tragitto, partendo da quel punto, tutte le sante mattine. Con qualsiasi tempo, andata e ritorno.

Ma quel giorno in casa non c’era nessuno. Al mio entrare in camera, volsi lo sguardo alla mia radio. L’avevo comprata un anno prima da un rigattiere di Copenaghen dove vivevo.
Era grande, di legno lucido, e di notevole potenza. Aveva dei pomelli che con il tempo si erano usurati, cosi come i supporti che trasmettevano il movimento a quel complesso insieme di valvole che era al suo interno. Era del 1935. Segnava tutte stazioni del Mar Baltico e della Russia, sulle quali a volte a notte fonda mi sintonizzavo per sentire l’Internazionale in versione originale.

Era posizionata al centro di un grande mobile basso e lungo, all’interno del quale custodivo le mie cose più personali ed intime. Ci tenevo anche dieci milioni di lire che un mio amico del Pigneto mi aveva dato da custodire. Nascosti in una intercapedine che avevo creata apposta.
Guardai la radio con quello sguardo tipico di chi cerca una risposta. Non avevo soldi per comprare dei dischi ed era il mio unico contatto con la musica, complice un suono felpato e maschio che diffondeva.

Mi ero spogliato di tutto e prima di sdraiarmi, l’accesi, e mi avviai lemme verso il letto al fianco del tavolo da lavoro dove ero solito cucire mentre l’ascoltavo la sera, rigorosamente a porta chiusa quasi di nascosto da mia madre. Provavo gelosia della mia intimità con la mia radio e di ciò che via via ascoltavo mentre lavoravo.
Ricordai a me stesso di aver sentito, durante il turno di guardia di qualche giorno prima, un pezzo di cui non avevo fatto in tempo a capire il titolo, ma ricordavo, che si trattava di un tale Ravel. Maurice. E quell’ascolto aveva provocato un tarlo dentro di me, tale da pretendere un bis.

Ci vollero alcuni minuti perché il volume cominciasse a partorire il suono. Le valvole si dovevano scaldare. Cosi mi disse l’uomo che me l’aveva venduta gesticolando in danese come se io di radio, fossi un esperto.
Mentre nudo mi accomodavo sul letto rifatto, senza la minima referenza per il suo ordine, pensavo alla fuga dalla caserma. Quando ad un tratto, silenzioso e impalpabile, con un glissante inizio di archi, la Pavane pour une infante défunte, invase la camera e la mia voglia di fuga.

Il pezzo che qualche attimo prima avevo desiderato. Da quel giorno, ovunque io sia vissuto, la radio nella cucina è sempre accesa. Giorno e notte.
Ieri Vergo, un amico, mi ha chiesto:
Perché tieni la radio sempre accesa, anche quando non ci sei ?
Perché non si senta mai sola..

J.K.

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Arcano XII

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Arcano XII

Se non vado errato, l’occupazione di Pisa cominciò quel giovedì 29 febbraio.
Stavo percorrendo la strada che lungo monte la collega a Lucca, quando verso le 7 di mattina, mi trovai all’ improvviso di fronte alla sagoma del battello sociale dei nostri invasori, sdraiato sulla pancia.

Si ergeva ad una sessantina di metri da terra sovrastando le case, e percorreva l’ orizzonte, dal traforo che collega Pisa con Lucca, fino alla Telecom. Sembrava una baguette calpestata, biancastra e ovale, quasi del tutto piatta nel ventre, con i bulloni di giuntura delle lamiere bene in vista, e perché si svuotasse del suo esercito ci vollero quasi 28 giorni. Era vicino alla casa di quel tipo che tutti chiamano Murphy.

Delle semplici scale di corda pencolavano dalle migliaia di oblò che foravano la carlinga, e che con inesorabile lentezza, vomitavano uno ad uno il soldati di quell’ impero che da allora ci sottomette.

Bianchi, trasparenti e un pò cerulei, si sparsero a centinaia di migliaia in tutta la nazione.
Ebbi l’impressione che fosse finita per tutti, senza che potessimo ritenerci sorpresi.
E poi fu certezza.

Ad ognuno di noi ne toccò uno in sorte. Il mio mi raggiunse, avvicinandosi con un passo felpato e certo, mentre ero lì che guardavo la scena, quasi paralizzato.
Dicono che all’interno di quella cattedrale volante, ci fosse una unica grande sala, grande quanto la sua superficie. Al suo interno i soldati celesti in fila, e divisi da un largo quanto inutile corridoio centrale.
Al centro, in fondo, rialzata su 12 di gradini una grande piattaforma bianca, culminante con una grande spianata, al cui centro si stagliava una figura appesa a testa all’ ingiù coperta di miele.
Irradiava una luce propria, ed un silenzioso quanto amorevole sciame d’api la divorava. Un appeso.

A pochi passi da questa, un altra figura salmodiava in piedi mimando la sua stessa voce senza che s’ udisse parola. E a chi con deferente e giustificato timore vedeva la scena da lontano, sembrava che quella sorta di celebrante leggesse un piccolissimo volume che inforcava tra le mani, scandendo un labiale esagerato e muto, di cui tutti gli astanti, sembravano attoniti capire il senso.
Si trattava di una di quelle presenze che invocano e preludono spiegazioni urgenti.

Gli invasori ci liberarono definitivamente da ogni forma di demagogia.
Non c’erano più gli estremi perché la politica venisse praticata come un esodo estivo, etico e morale, ed in quanto tale venne censita tra i vizi capitali.
Molti furono i vantaggi che quella dominazione portò in quella regione. Io stesso ero riuscito a creare una partizione dentro di me in virtù di questo. La usavo per custodire intatte le mie intensità. E spesso passavo le sere a ritrovare tutte le mie prime volte. Un cammeo dopo l’altro.

Sparirono tutte le forme di accidia esistenziale, e le Misericordie di paese. Scomparve il senso di colpa che la macrobiotica induce per non essere stati migliori, almeno fin lì.

Sparì la morte prima degli 85 anni se non volontaria. Sparirono molte forme di indifferenza. Rimasero solo quelle plausibili.
E l’ amore tra generi diversi non fu più considerato un opzione di default. La storia dell’ arte divenne l’ unica materia imposta agli studenti dai 10 anni in giù.
Successe un casino ovviamente.

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All you need, is less

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Often, faced with choices that you have to do to embark on a journey, there might be to be able to take a ship, or alternatively a plane.

Here are at least a dozen reasons why the choice should not be so complicated. All in relation to the fact that, all you need , is less.

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Gibellina – Cretto di Burri

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Gibellina e Poggioreale. Due paesi dell’entroterra siciliano. Entrambi colpiti dal sisma del 1968 che rase al suolo Gibellina e ferì gravemente Poggioreale, che dista appena 15 km.

Ciò che rimane della vecchia Gibellina è il Cretto di Burri. Una colossale opera di copertura delle rovine, con dei blocchi di cemento, che ricalca il tracciato viario del paese distrutto, e che appare da chilometri stagliato nella collina, come un immensa lapide percorsa da crepature. Lo trovai per caso vagando per la Sicilia, il giorno di un mio ennesimo solitario compleanno di tanti anni fa.

Era caldo, verso ora di pranzo cercavo un posto dove ripararmi. Mi addormentai in macchina vicino all’ingresso del labirinto. Sognai di vagarci dentro per chiedere perdono a qualcuno che non riuscivo a trovare. Queste fotografie sono forse la trasposizione di quel sogno.

Viste le attuali condizioni del Cretto di Burri e di Poggioreale, verrebbe da chiedersi quale intenzione politica sia in grado di lasciare un segno migliore di quello passato, e in nome di cosa intenderà farlo. Ma soprattutto se ancora ne esiste una, visto che ancora confondiamo la politica con chi la decide. Cioè noi.

Poggioreale oggi appare come il simbolo dell’impotenza di un tessuto sociale , che non riesce ad avere una consapevolezza della sua memoria.  Mettere mano seriamente ad un progetto di tale portata, ( Poggioreale è considerata l’unica ghost town dell’intera Sicilia) sarebbe un atto di coraggiosa onestà intellettuale, che la politica non ricorda più di dover esprimere, ma soprattutto perché la forza di chi la elegge è debole e complice.

Ciò che è stato è stato. L’incuria, la mancanza di rispetto, la mafia, sono dei cliché nei quali bisogna avere lo stomaco di non cadere e viene dunque da chiedersi, come e dove trovare il senso nel proporre giornate della memoria, se le nostre esistenze sono prive di tentativi per crearne una.   Forse sarebbe più semplice sancire con più onestà ancora, che c’è poco da fare, farsene una ragione, e celebrare la fine che è sempre dentro ogni inizio. O viceversa.  Questa raccolta di immagini intende rendere qualcosa all’urlo che ancora vaga tra quei vicoli, e al lutto ormai maturo, per la perdita di tutti i simboli della civiltà contadina nel nostro quotidiano.

Nel farlo, ci siamo posti infine, la domanda sul perché, e se fosse giusto danzare in un cimitero.  E se fosse giusto rivolgersi ai morti in questo modo ed in netto contrasto alla loro condizione.E questa ci è parsa provocatoriamente, l’unica chance che avevamo per crearci noi stessi una memoria, ed onorarne un altra.

Ed abbiamo offerto loro la nudità, in cambio del perdono.

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Photo larecherchestudio © P.C.  Credits : Antonio Sardella Classic and Modern Dancer – Giusy Di Malta Assistent