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All you need, is less

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Often, faced with choices that you have to do to embark on a journey, there might be to be able to take a ship, or alternatively a plane.

Here are at least a dozen reasons why the choice should not be so complicated. All in relation to the fact that, all you need , is less.

http://www.larecherchestudio.com/lr/sliders-list/all-you-need-is-less/

A.A.   www.larecherchestudio.com © all right reserved

Gibellina – Cretto di Burri

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Gibellina e Poggioreale. Due paesi dell’entroterra siciliano. Entrambi colpiti dal sisma del 1968 che rase al suolo Gibellina e ferì gravemente Poggioreale, che dista appena 15 km.

Ciò che rimane della vecchia Gibellina è il Cretto di Burri. Una colossale opera di copertura delle rovine, con dei blocchi di cemento, che ricalca il tracciato viario del paese distrutto, e che appare da chilometri stagliato nella collina, come un immensa lapide percorsa da crepature. Lo trovai per caso vagando per la Sicilia, il giorno di un mio ennesimo solitario compleanno di tanti anni fa.

Era caldo, verso ora di pranzo cercavo un posto dove ripararmi. Mi addormentai in macchina vicino all’ingresso del labirinto. Sognai di vagarci dentro per chiedere perdono a qualcuno che non riuscivo a trovare. Queste fotografie sono forse la trasposizione di quel sogno.

Viste le attuali condizioni del Cretto di Burri e di Poggioreale, verrebbe da chiedersi quale intenzione politica sia in grado di lasciare un segno migliore di quello passato, e in nome di cosa intenderà farlo. Ma soprattutto se ancora ne esiste una, visto che ancora confondiamo la politica con chi la decide. Cioè noi.

Poggioreale oggi appare come il simbolo dell’impotenza di un tessuto sociale , che non riesce ad avere una consapevolezza della sua memoria.  Mettere mano seriamente ad un progetto di tale portata, ( Poggioreale è considerata l’unica ghost town dell’intera Sicilia) sarebbe un atto di coraggiosa onestà intellettuale, che la politica non ricorda più di dover esprimere, ma soprattutto perché la forza di chi la elegge è debole e complice.

Ciò che è stato è stato. L’incuria, la mancanza di rispetto, la mafia, sono dei cliché nei quali bisogna avere lo stomaco di non cadere e viene dunque da chiedersi, come e dove trovare il senso nel proporre giornate della memoria, se le nostre esistenze sono prive di tentativi per crearne una.   Forse sarebbe più semplice sancire con più onestà ancora, che c’è poco da fare, farsene una ragione, e celebrare la fine che è sempre dentro ogni inizio. O viceversa.  Questa raccolta di immagini intende rendere qualcosa all’urlo che ancora vaga tra quei vicoli, e al lutto ormai maturo, per la perdita di tutti i simboli della civiltà contadina nel nostro quotidiano.

Nel farlo, ci siamo posti infine, la domanda sul perché, e se fosse giusto danzare in un cimitero.  E se fosse giusto rivolgersi ai morti in questo modo ed in netto contrasto alla loro condizione.E questa ci è parsa provocatoriamente, l’unica chance che avevamo per crearci noi stessi una memoria, ed onorarne un altra.

Ed abbiamo offerto loro la nudità, in cambio del perdono.

http://www.larecherchestudio.com/lr/sliders-list/antonio-sardella/

Photo larecherchestudio © P.C.  Credits : Antonio Sardella Classic and Modern Dancer – Giusy Di Malta Assistent

04Mag.2014

Cossyra

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La prima volta arrivai a Pantelleria nel 68. L’anno in cui mio padre morì e fu un autentico giramento di scatole. Odiavo il pesce, il sesamo e soprattutto il mare, nel quale ero quasi morto affogato poco tempo prima. Odiavo soprattutto il vento, che  increspa continuamente quel mare, perché mi impediva di fare pace con il mio terrore per l’acqua, che temevo e temo più dell’acqua stessa. Per riparare a quella, che tutto era meno che una diceria me ne stavo distante dalla riva e passavo interi pomeriggi a casa della zia Angiolina.

Immagine retorica, quanto solida, di isolana verace.  Viveva in una casa tutta turchese, piena di armadi sbrindellati, assestati a forza nelle nicchie dei muri.   Era minuta, di carnagione olivastra, vestita di nero, con delle grandi labbra scure e qualche solitario dente. Era stata bella e fragrante come solo una voce sola sa essere. Vispa ed elegante, come una domenica d’Aprile é la notte. Gli occhiali pendenti a maestrale, riparati alla meglio con dei cerotti. Sul tavolo pieno di panni, in bella mostra, una quantità di “mustazzoli” vivaci e freschi, dentro un cesto apparentemente sfondato, e cosparsi di perline colorate, e così intonate al resto. Circondati da mosche voraci, che la rete del paniere teneva lontane. Non osavo mangiarne uno, perché non amavo il cibo e dicevo di no a tutto.

Non avrei sopportato di dover mangiare qualcosa che poteva non piacermi, irretito palesemente da quel principio che diceva, che se si morde qualcosa, va mangiato comunque. Non volendo correre il rischio, mi limitavo a guardarli, e con gli occhi mi convincevo che non sarebbero andati giù neanche a calci. Solo rubandoli avrei potuto tentare l’assaggio, e non visto, sputare il resto qualora non mi fosse piacuto. Il sapore poi, in che modo sarebbe stato diverso da ciò che vedevo? Perché rischiare di far torto ad un senso? Il solo guardarli, già mi rendeva completo e in difetto. Era il segno dell’adolescenza. L’età che l’istinto preferisce. Erano lì per i suoi nipoti, più sodi e più belli di me, e non certo per chi poteva viaggiare in aereo, un fokker a due ali, a due motori e a due file di posti.  Ciò che per altri era una liturgia, per me era solo tentazione a cui cedere. O erano per le gite a Ghirlanda, dove non trovando albicocche, erano il premio della sosta innaffiata con orzata fresca. Si, ne avrei rubato qualcuno, invece che dare soddisfazione e dire grazie.  Così come si ruba uno sguardo tra due che si cercano, o come nascosti si ascolta il rumore di vecchie che parlano “stritto stritto” dalla porta di là. Quell’adorabile Andante così sconosciuto e perverso, che è l’ascoltare ciò che non ci riguarda. Ciò che non si comprende o che si ignora, ma che ingrassa inevitabilemte  le parole e i giudizi che verranno. In realtà i miei miti erano altri. Erano le palline colorate che c’erano  sopra attaccate alla glassa, ed era l’hangar abbandonato del vecchio aeroporto Pantesco. Altro che il mare e gli azzurri fondali d’una futura riserva di interessi.

Mi decisi a compiere il furto, e complice l’andata verso l’aeropoto a prendere qualcuno con mi zia, nell’attesa scappai verso l’hangar poco distante. Arrivai nell’enorme deposito di guerra abbandonato, urlando vittorioso con il trofeo in mano, e con la glassa ormai che colava sui polsi tirando fuori i mostazzoli dalle tasche. Calpestando veloce il pavimento pieno di bulloni, e alzando cumuli di polvere. Regista ed attore del mio film d’ essai preferito, spuntai dall’angolo d’entrata avvolto da un cencio di luce radente e spinto da un vento incessante, che alzava un ventre di polvere vecchia e pesante, oleosa. I calzoni corti strappati da zingaro inerme, e in tasca un poco di tutto. Correndo beato del furto alla zia, che poi zia a me non era e parafrasando alla meglio, urlavo con tutto il fiato che avevo sul davanzale del petto……amoninneeee picciottti..! , imitando il cacciatore mezzo guercio che veniva chiamato “lo ghiennero”  e con cui andavo a caccia e della cui benevolenza, andavo decisamente orgoglieso. Berciando così, mi spinsi fin sotto gli aerei abbandonati lì dalla guerra. Poi fermo aspettai.

L’ eco dell’ urlo, e del battito di piedi, sembrava avesse la forza di staccare la tomaia dai sandali. Si ripeteva all’infinito, facendo fuggire  le tortore che avevano fatto di quella dimora di guerra, un unico scempio di cacca d’autore. Sparsi a caso nell’hangar, gli stukas tedeschi accasciati sull’ ala. Salito al posto di guida, afferrata la cloche con un mano, addentai il furto, leccando prima le sole palline rosse. Un vero corpo a corpo.  Misto a un profumo di olio mai secco, e dei fusti di morchie antiche oramai. Sapevano d’ arancio mica storie. Qualcuna bianca era più dura, ed era ostile al sapore. L’affogavo mischiandola all’impasto dolciastro , per poi sputarla sul vetro rotto, chissà quanto tempo prima da un proiettile o forse da un turista-erectus a due cuori. Con la bocca stuprata, e piena di mandorle e secco. Erano ottimi.

Non c’era, nelle case di allora la rassicurante ossessione dei Padrepii di plastica fosforescente, ma tanti santi di maggiore candore. In salsa turchese. Antonino,Vincenzino…un mondo declinato per ino, per vino o postino. L’unico telefonino era “la telefonista”. All’incrocio di quattro vicoli sganasciati, che veniva chiamata La crociera,  c’era un indefinibile antro ad uso tabaccheria. Era pieno di ogni sorta di impicci, e dove sostava appoggiata ad una immensa telefonista, l’unica cabina telefonica esistente nel raggio di 10 km  e dalla quale si usciva grondanti di sudore e di parole non comprese.   Serviva solo a dire che si era vivi a chi era lontano, e che si era fatto chiamare a quel giorno e a quell’ora. Puntuali per favore.  Sull’isola non c’era una siepe guarnita come da rivista, né uno stupore di architetta di Milano centro.  L’isola  era  interamente percorsa da strade bianche, da asini e da carretti improvvisati.   

Sdraiato sulla ducchena, di nascosto, trangugiavo passito riserva non sapendo quanto ne bastasse ad un bimbo per essere più allegro.   Perso e in calore, ascoltavo Angiolina in casa aggiustare la sera alla meglio, e alla radio, una voce pacata che odorava di minestra.  Radio sera. Il conforto prima del buio.  Unica voce tra tante a smorzare il frastuono del cielo sul mare, e dell’azzurro sul petto. A tavola l’inutile pianto dei calamari tagliati precisi ad anello, scansati ed offesi, che appena voltatasi lei, finivano al gatto.   Eran proprio buoni sai ? (mi diceva il micio sornione) ..ne avresti mica giusto un altro ?..Ed io, “contentati caro che il domani per te non c’ è, tanto quanto per me che sono un’artista”

Chi di noi sapeva che tutto questo sarebbe scomparso? Nessuno ci ha avvisato. E se avesse potuto, lo avrebbe fatto davvero ?  Qualcuno poteva immaginare che ci sarebbe rimasto così impresso dentro di noi  al punto di conservarlo con tanta devozione?  E chi avrebbe immaginato allora, l’avvento di tanta insistente umanità convinta d’essere il centro del mondo, perché altrove non era nessuno ? E che fine avrebbe fatto il ricordo? Aggiunto, ripreso e cucito, tra qualche ombra di bandito acquattato tra gli schioppi pronti appesi, sarebbe rimasto sotto il pastrano per sparare alle lepri e guarnire la notte, di incanti e di paura.

DEDICHE

Dedicato a quel recidivo tornare in un posto, al ri-edire del “genere segno o sogno” che sia, dove fanno eco solo dei pezzi che alcuni pensano essere rari, e che ora dirò essere soltanto dei mustazzoli. Grondanti di glassa e memoria. Dedicato a quell’umanità silenziosa,“interperrita”, un pò storpia, e per questo felicemente cafona, che non sa ancora perché deve riconoscersi in qualcosa, o in qualcuno per esser sicura di esistere. O che si contenta di vivere così, anche a prova di difficoltà materiali e spirituali. O che si ritrova magari in un colore convinto o nelle parole di un santo solo meglio se vissuto ante litteram. Ma se dessimo un premio a chi scopre dove la musica vive e si accoppia??. Riusciremmo a scansare il senso d’ incertezza che si perpetra sopra di noi, a futura memoria, per farne un ricordo possente ed un abito meno attillato?

Più tempo, credo sia la richiesta di noi tutti che siamo i ritrovati.   Più tempo per capire ed imparare, nonostante le incipienti storture e le ingiustizie per le quali i sognatori soffrono in dignitoso, quanto abominevole silenzio. Il vivere ” migliore” che c’è stato imposto, non ha un contenuto spesso diverso dal diritto di averlo acquisito,  ma perchè non farne qualcosa di diverso? Potremmo rinunciare ? Sì, grazie.  Confido nell’ inesauribile desiderio di sogni, nonostante la tenera età che oggi propongo a me stesso. Ogni giorno ( più o meno…) mi telefono con un amico, per sapere quanti anni abbiamo a prescindere, e ci avvicendiamo di adolescenze, in vecchiaie a ritmo serrato, nella netta certezza, che non invecchieremo mai lo stesso giorno, o peggio insieme.

Uno dovrà rimanere a badare all’altro. E mi sento avere sempre meno anni di quelli che ho, e meno tempo per vivere in pace dall’inevitabile inizio …

 

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India

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Non si può essere felici mai.

Come pugni serrati e duri, nascono i pensieri. Chiusi tra spalle possenti e i capelli, a tratti di diverso colore,

Tu eri quel piccolo angelo che ognuno avrebbe voluto per sé.Tutto per sé. 

Agitavi le nostre notti, spazzando via rabbia, idoli di fango, e tanti di quei rapimenti stupidi e improbabili.

Se ci guardi, ci scegli, o ci vegli, te ne saremo ancora per grati per sempre.

Nessuno saprà mai nulla di te, e se io morissi ora, neanche tu lo capiresti.

Forse, in preda ad un soffio misto ad un’odore, potrei finalmente essere al tuo fianco. In un libro che leggi, o mentre t’asciughi il viso.

Se nasci ancora, fammelo sapere.  Potrei finalmente incontrarti chissà, tra giochi di strada, o a scuola tra i banchi,

o forse in quel negozio di vestiti indiano,

tra colori attesi, imperterriti

e antichi.

 

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01Mag.2014

1 Maggio 2038

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Il primo Maggio del 2038 saremo tutti ad Itaca.

Io e voi, e mi  auguro ci sia almeno una spiaggia.
Spesso le parlo ad ora di pranzo, quando solerte si vanta di tutti i suoi scorfani. E dei suoi drammi d’agosto risolti.  Ma quel giorno sarà il primo di Maggio.
Dunque, che ognuno di voi porti i suoi stracci, i suoi maghi, i giochi e i serpenti addormentati.
E il sole avrà quella cheta clemenza che dedica ai pazzi, sotto un cielo terso e striato di costole.

Cacth the wind-
Arriverete uno alla volta perchè io possa dedicarmi ad uno solo di voi.   Per giocare non ci sarà un viale, ma la spianata della marina.
E tutte le navi con il gran pavese e le luci accese, sparse a darsi battaglia lontane.  Potrete spostarle a vostro piacere o riempirle di bombe.
Colpite o affondate.
O puntarvi contro i cannoni l’uno con l’altro, scattando sui tacchi ad ogni bersaglio centrato.
Io segnerò i punti, barando.

Mellow yellow-
Non avrete nulla di pop nel vostro godere.
All’ingresso troverete un arco di rovi e dovrete potarli. Nelle stanze da letto, troverete una piccola stesa di olive nere sui sacchi di iuta, per profumare le vostre notti di grasso e un braciere con legno d’olivo posato al centro del letto, tra quelle neglette lenzuola di lino. Una lampadina appesa ad un filo, l’unico bagliore concesso.
Il bagno avrà una finestra sul mare, giusto all’altezza del viso.  Metteteci tutto il tempo che volete per farla. Sia l’una, che l’altra.
Gli armadi impastati di sale, sarà meglio che voi non li aprite. A cosa vi servono?
Voi siete ora il vostro passato. Stendetelo pari sul divano a fiori sfondato, pieno di quel crine che spunta dal buco e che da sempre mi ha reso curioso. O meglio, buttate per terra tutto quello che avete in valigia.

Sp-M-oon river-
Ed il giorno di festa vi sorprenderà col fiato sul collo, perché nessuno sapeva dell’ arrivo degli altri, né del suo doppio, né di cosa avrebbe trovato.  Nonno sarà seduto alla balaustra, ad affilare cauto e solerte la lama del pane.  Nonna a ordire il rosario e a dividere i cocci gli uni dagli altri.
Travolti dai vostri stupori domenicali, potrete stare con loro ancora una volta. Quei lunghi patriarchi di sale vestiti di nero, che avevate notato nei vostri credo rabbiosi, erano loro.
Una lunga tavola bianca, stesa sul selciato di pietra per sfamare la festa. Sedie diverse. E grandi mazzi di cardi e seccume. Posate d’argento ossidate dal cibo di altri, e bottiglie con i tappi di vetro sbeccati. Larghi i calici e i serviti con i fiori e il bordo d’oro strappato.
E anticaglie e frutta dovunque. Non ci dovrà essere nulla di nuovo, nè di splendente.
Sarete costretti dai segni, a coniugare il perdono.

Suzanne-
Io, da tempo, sono in una piccola scatola d’argento e turchesi comprata in Ladakh.
Aleggia all’entrata, su quell’ insolito straccio intrecciato col grano nel centro di un piatto di legno, sopra il baule di ferro. Quello che presi di fronte alla scuola di tedesco. Era abbandonato per strada e lo trascinai fino a casa, credendo di avere fatto un affare.
Ascolterò ad uno ad uno i vostri ingressi per esserne sazio, e ricordare le voci di allora  che mi avevano incantato. Ognuno avrà, per favore, i suoi accordi e il vestito di sempre e quel pudore che mai vi ha lasciato davvero. O non vi riconoscerò .

You are beautiful-
In inglese può essere lui o lei. A scelta.
Senza passare dal via, al primo buio, speronerò il mare. Proprio quando la poca luce rimasta vi farà vedere ancora le rughe dei vostri rispettabili palmi.
Vorrei essere messo da uno di voi, e lasciato andare, in quel piccolo e liso cesto di paglia che troverete in cantina, pieno di foto e con un piccolo lume nel centro. Il tappo aperto. Mi guarderete andar via portato lontano dalla corrente. Sarà l’ultimo Maggio che passeremo vicini, il solo che avrei voluto così e il resto sarà, bontà vostra, solo ricordo.

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